sabato 13 ottobre 2007

Damiano ci scrive da Sal

Damiano, un nostro lettore, ci ha inviato una riflessione da Capo Verde, dove si è recato per un lavoro di ricerca antropologica, che qui pubblichiamo.

Guardo il mare e le sue onde sulla spiaggia di Costa da Fragata, una delle più selvagge di Sal, lontano dagli italiani rinchiusi nei villaggi e incontrati nelle loro ore di libera uscita, lontano dalle continue pressioni dei ragazzi senegalesi (i quali però se spieghi di essere a Sal per motivi di lavoro, ti trattano con una dignità diversa, non sei più il pollo bianco da spennare), lontano dagli inglesi e dalle loro birre e più guardo il mare e più penso che c’è qualcosa di sbagliato.
È una sensazione che ho dentro da quando sono arrivato a Sal, forse sarà dovuta al viaggio di quasi 24 ore per arrivare qui, oppure al fatto che Sal non mi è mai piaciuta, non so, ma sento che c’è qualcosa di sbagliato in quest’isola.
Esistono due Santa Maria, quella dei villaggi che anche geograficamente è separata dal resto del villaggio e tocca appena la realtà e la vera Santa Maria quella delle strade ancora in terra battuta in cui mancano le fogne, in cui le case sembrano tutte in eterna costruzione e sembra abbiano come destino di non essere mai finite, della gente che la sera passa il tempo seduta sulle scale in attesa di andare a dormire.
La Santa Maria dei bambini scalzi che giocano per strada e ti inondano l’anima con i loro sorrisi, la Santa Maria dei Senegalesi che la sera del venerdì al Baraonda ti inondano di energia con la loro musica così potente, così fisica.
La Santa Maria della messa la domenica, dei canti che non sono solo canti di chiesa ma qualcosa di più e che ti fanno quasi toccare una spiritualità che è difficile trovare nelle nostre Chiese, con buona pace di Papa Ratzinger che vorrebbe eliminare la musica dalle messe.
E poi c’è la mia personale Sodade per mia moglie che non mi lascia da quando sono qui e penso a quelle parole che il Prof. Sobrero ha detto durante una conferenza : “ il tempo della ricerca all’estero è un tempo che non si recupera”, la frase va interpretata e io la interpreto come tempo perduto ai sentimenti, agli affetti che si lasciano per seguire un’idea, un sogno.
La ricerca va avanti tra alti e bassi, tra frustrazioni e esaltazioni, tra momenti di confusione e di certezza e talvolta l’etnografo si ritrova solo con i suoi pensieri e la sua malinconia davanti al mare e forse comprende meglio le ragioni e i perché di Malinowski, le sue dichiarazione nei suoi “scandalosi” diari.
E poi c’è il mare che da sempre è dentro la mia vita e che mi ha spinto a volere questa ricerca, il mare che accompagna la mia vita da sempre.
Mio padre, ora in pensione, era un marinaio (sembra l’inizio di una canzone di De Gregori) e nella mia infanzia, nella mia adolescenza, tutta la vita era scandita dai tempi del suo lavoro, le sue presenze, le sue lunghe assenze, l’attesa delle telefonate la sera tutti davanti al telefono.
Con lui ho fatto il mio primo grande viaggio quando avevo appena dodici anni in Unione Sovietica e non finirò mai di ringraziarlo di avermi concesso questo privilegio, questa iniziazione al mare e ai viaggi.
Poi un evento lo ha allontanato dal mare, adesso quasi non vuole vederlo.
E questo è un mio tentativo di restituirgli il mare.
E ora c’è Clara che il mare lo vive e che vive per il mare, e che posso sentire nelle onde che si susseguono qui sulla Costa da Fragata.
È a loro e a tutti coloro che amano il mare che dedico questo primo contributo.
Um abraço

Damiano

1 commento:

Anonimo ha detto...

quanta emozione leggo tra le righe di questa lettera..... pure io mi emoziono quando capisco che qualcuno ha colto la vera essenza di Capo Verde anche a Santa Maria al di fuori dei villaggi turistici. Speriamo che le altre isole conoscano uno sviluppo del turismo un po' più responsabile... ma purtroppo stanno crescendo realtà simili anche altrove (ad es. il centro Sambala sull'isola di Santiago). Buona fortuna Capo Verde! Kla

Kabe Verde!

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ottobre 2006 - zona Ribera Prata - São Nicolau
 
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